Buongiorno lettori, vorrei ora esporvi una riflessione personale che ha preso piede dentro me nel corso della lettura del libro di Eco.
Nell'incipit del proprio romanzo Eco sostiene di aver ritrovato un antico testo, appartenente ad un monaco benedettino,e di averlo successivamente copiato e tradotto del francese.
Nell'incipit del proprio romanzo Eco sostiene di aver ritrovato un antico testo, appartenente ad un monaco benedettino,e di averlo successivamente copiato e tradotto del francese.
Dal
nome del proemio, ovvero “Naturalmente, un manoscritto”, si
potrebbe pensare che lo scrittore alessandrino si riferisca al
Manzoni, il quale dichiara in ugual modo di aver trovato un antico
testo e di averlo semplicemente riscritto in un italiano meno
ampolloso.
Riflettendoci,
non sono pochi gli elementi comuni fra le due opere:
prima
di tutto la trama risulta quasi accessoria, uno strumento per poter
trattare e camuffare argomenti più elevati, si pensi ad esempio alla
protesta nei confronti del dominio spagnolo presente nel romanzo di
Manzoni .
Per
poter comprendere a fondo entrambi i libri risulta,quindi, necessario
trascendere il livello letterario per raggiungere quello allegorico.
Lo
stesso Eco afferma che “i libri non sono fatti per crederci, ma per
essere sottoposti a indagine. Di fronte ad un libro non dobbiamo
chiederci cosa dice ma cosa vuole dire”
Inoltre,
in entrambi gli scritti, non manca certo lo spazio per alcune
digressioni di carattere storico-politico o per minuziose
descrizioni.
Sono
entrambi romanzi storici al cui interno si sviluppa un Bildungsroman
(romanzo di formazione): così come Renzo, nel corso del romanzo,
raggiunge la maturità e diviene più responsabile, così
Adso, che sostituisce il narratore onnisciente manzoniano, completa
il suo tortuoso apprendistato e impara dal suo maestro a sviluppare
dei percorsi logico-deduttivi. Si pensi all'ingenuità e alla scarsa
indipendenza che lo caratterizzano all'inizio del romanzo, che
vengono però superate nei capitoli finali:Adso suggerirà al
suo acuto precettore la soluzione dell'enigma e formulerà diverse
ipotesi riguardo il comportamento dell'abate Abbone.
Sono
presenti anche altri fini richiami fra i due scritti: il nome
dell'abbazia non viene reso noto, perché Eco sostiene che non sarebbe
pio e conveniente; questo ,infondo, è lo stesso motivo che spinse
Manzoni a non svelare la vera identità dell'Innominato.
Inoltre, entrambi gli edifici sono situati in luoghi austeri e ad un'elevata altitudine.
Infine,
al termine del romanzo, la figura di Malachia viene osservata sotto
una nuova luce, non appare più il bibliotecario rigido e
misterioso, ma solo un pover uomo assoggettato a Jorge che viene
paragonato ad un vaso di terracotta in mezzo a vasi di ferro, proprio
come Don Abbondio.
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| Il castello dell'innominato, F. Gonin |

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